di Andrea Michieli*

Il laboratorio di questo numero è dedicato al tema della comunità. Con il termine comunità intendiamo ogni luogo in cui l’individuo, ponendosi in relazione con altri da sé, “svolge la sua personalità”. L’argomento potrebbe sembrare astratto e poco aderente alla situazione che vive il nostro Paese. Eppure si vorrebbe proporre una riflessione: il periodo storico nel quale viviamo si connota di una forte crisi comunitaria.

Per cercare di sostanziare la nostra tesi prendiamo in prestito tre studi sociologici recenti. Il primo (Luhman) sostiene che con l’arretramento dello Stato moderno, che forniva ai cittadini i principali riferimenti di senso, si sono creati ambiti sociali più ristretti ed autoreferenziali poiché «nella costituzione dei loro elementi e nelle loro operazioni elementari, fanno riferimento a loro stessi».  La secondo nota teoria (Bauman) mette in luce come i rapporti umani siano sempre più votati alla fragilità, piuttosto che alla stabilità; all’emozione, piuttosto che alla decisione. La terza teoria infine (Magatti) vede il fondamento della crisi antropologica nella separazione tra “funzioni” e “significati”, cioè tra i mezzi tecnici che servono alle comunità per vivere ed organizzarsi ed il significato che essi hanno e che dovrebbe orientarli.

Il tratto più significativo che emerge è la chiusura delle comunità tra loro ed al livello superiore, quello della comunità politica. Potremmo dire che esse assumono un paradigma di esclusività, piuttosto che di inclusività. Questa chiusura comporta due conseguenze. Da un lato l’estremo inaridimento delle singole esperienza comunitarie che, chiudendosi, diventano autoreferenziali. Dall’altro il progressivo impoverimento della comunità politica. Su questo secondo aspetto vorrei ancora soffermarmi. Le comunità infatti quando diventano esclusivamente lobby, portatrici di interessi particolari, senza contemperare l’interesse globale, perdono la loro missione di socialità. Non si vuole negare che la democrazia sia fatta anche di interessi particolari, ma certamente si vuole affermare che essa non è mai somma di tali interessi, ma sintesi. Di questa sintesi si dovrebbero far carico già le comunità intermedie per poter generare buona politica.

Abbiamo fin qui delineato alcuni tratti della nostra riflessione. Traccio in conclusione la maggiore conseguenza della crisi comunitaria. Come afferma il paradosso di Bockenforde, «lo stato liberale secolarizzato si poggia su presupposti che non può garantire» e la conservazione di essi è affidata allo sforzo educativo costante delle comunità: esse quindi custodiscono i presupposti della comunità politica. La loro crisi rischia non solo di disgregare lo stato, ma soprattutto di negare i diritti che esso tutela e il metodo democratico che sottende. La “crisi comunitaria” non si risolve primariamente per via politica. È necessario prima ancora ricominciare ad avere autocoscienza del “valore di comunità” all’interno della società e porlo al centro della riflessione sul nostro tempo.

*  Condirettore di Ricerca